Il miraggio del programmatic

I cookie di terze parti sono stati finora fondamentali per il funzionamento del meccanismo artificialmente complesso dell’advertising programmatico, quel sistema che fa sì che ogni sito di contenuti sia disseminato di annunci pubblicitari e che ha consacrato di fatto la pubblicità come modello di business di tutto Internet.

L’advertising programmatico è prima di tutto un sistema automatizzato, che si basa su algoritmi per decidere dove e quando verrà mostrato un annuncio; in secondo luogo ha la capacità di mostrare gli annunci solo a determinate categorie di utenti – o addirittura a un singolo utente: il targeting, o personalizzazione.

Un certo Wanamaker aveva sintetizzato già oltre un secolo fa la frustrazione per l’incertezza legata all’advertising nella frase ormai celebre «La metà dei soldi che spendo in advertising va sprecata; il problema è che non so quale metà».

Ed è proprio questa incertezza che rende l’abilità di “mirare” un annuncio all’utente più adatto infinitamente desiderabile – e quindi infinitamente vendibile – perché offre agli advertiser (brand e agenzie di pubblicità) quello che desiderano da sempre: avere il controllo assoluto su chi riceverà il messaggio e, di conseguenza, la certezza di aver investito bene i loro soldi.

«Sia cauto il compratore»

Il miraggio dell’annuncio perfetto, nel momento perfetto, alla persona perfetta, reso possibile in teoria dalla struttura di Internet, è però solo un miraggio e comincia ad essere svelato per quello che è. Gli annunci personalizzati infastidiscono gli utenti, costano cari agli advertiser e, secondo sempre più studi, non “convertono” se non di qualche punto percentuale in più rispetto agli annunci contestualizzati (quelli che appaiono accanto a contenuti coerenti con l’annuncio) pur costando molto, molto di più. Oltre a questo, hanno sedotto l’editoria che, connivente o meno, si è fatta affascinare prima, danneggiare poi, dalle promesse del programmatic.

Ma è paradossalmente proprio l’imperfezione dei risultati, unita alla desiderabilità dell’obiettivo, a diventare essa stessa una risorsa per il programmatic advertising, che può in questo modo sfornare sempre nuove tecnologie che queste sì, permetteranno finalmente l’onniscienza che ogni advertiser sogna. «Non ancora, ma presto! Più targeting, miglior targeting, MICROTARGETING!».

Raggiri semantici

I cookie non sono il diavolo: sono uno strumento pratico, relativamente semplice e poco regolato – almeno fino al 2018, anno in cui il GDPR è entrato in vigore – che facilita la navigazione e permette la personalizzazione degli annunci e il tracciamento degli utenti online.

Per quanto possa sembrare ovvio che la parte problematica dell’espressione “cookie tracking” non è “cookie”, ma “tracking”, da quando Google ha deciso di prendere le distanze dai cookie di terze parti – peraltro in ritardo di anni su Safari e Firefox – il settore del programmatic ha avuto prevalentemente due reazioni:

Ci sono quelli che accusano Google di volerli rovinare;

E poi c’è tutto un fermento di nuove soluzioni per tracciare di più e meglio continuando a personalizzare gli annunci. Il tutto, naturalmente, senza cookie.

Se il risultato è lo stesso

Liveramp, autorevole azienda del settore, è all’avanguardia della ricerca sugli identificativi persistenti, persistent id, che promettono miglior targeting senza le scomodità dei cookie, poco affidabili oltre che ormai caduti in disgrazia nell’opinione pubblica.

Con candore Liveramp ci dice che la loro ID, a differenza dei cookie, è in grado di:

-Distinguere gli individui anche nel caso di dispositivi condivisi;

-Arrivare a utenti specifici tramite la TV via cavo o smart TV;

-Unire i dati online e offline.

È evidente quindi che i pilastri su cui si dà per scontato che si continui a reggere l’impianto commerciale di Internet rimangono il tracciamento e la personalizzazione, con l’unica differenza di essere ripuliti dalla parola offensiva.

Perfino la blasonatissima azienda di consulenza Deloitte, nella sua guida al Cookieless Marketing, dice: «Le organizzazioni che processano e vendono i dati dovranno sviluppare nuovi modi per raccogliere e aggregare dati sull’audience che non richiedono cookie di terze parti».

Questo per far fronte al fatto che molte delle audience diminuiranno sensibilmente di volume quando non sarà più possibile aggiornarle con le nuove informazioni inviate dai cookie, o quando questi scadranno (in teoria la durata massima di un cookie è 365 giorni).

Come ci si poteva aspettare, sia Google, con la sua Federated Learning of Cohorts (FLoC), di cui parlo nel prossimo articolo, sia Liveramp, che ogni altra organizzazione che si sta industriando per dribblare il GDPR e altre leggi che proteggono la privacy, puntano tutto sulla sicurezza e la riservatezza dei nostri dati: «Tu dimmi tutto, io tengo il segreto, fidati».

I cookie, usati con tanto entusiasmo fino a pochissimo tempo fa, diventano il capro espiatorio perfetto; le nuove soluzioni con nomi tech-altisonanti e solenni promesse di inviolabilità quasi pronte per essere vendute.

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