Nella breve storia dell’advertising digitale oggetto di uno scorso post mi sono fermata al 2014, quando è entrato in gioco il programmatic advertising. La tendenza a una sempre maggiore automazione e un sempre maggiore impiego di tecnologia è il marchio di fabbrica del Web (e della nostra società), ma con il programmatic le cose sembrano essere sfuggite di mano, tanto che gira la voce che nemmeno i professionisti del settore ci capiscano molto. Quelli che ci capiscono traducono in fretta le loro conoscenze in soldi, perché questo è un campo dominato dalle asimmetrie informative: tra professionisti e professionisti, tra professionisti e brand, tra brand e consumatori, tra consumatori e publisher – e tra le aziende di AdTech e tutti gli altri.
Prendo ancora da The system di James Ball per la definizione sintetica del programmatic. «Il meccanismo centrale del programmatic advertising è una sorta di “gioco delle coppie”» dice Ball. «L’obiettivo è accoppiare te, l’utente internet, con l’azienda che è più motivata a mostrarti la sua pubblicità, cioè l’azienda che pagherebbe più di ogni altra per mettersi davanti ai tuoi occhi».
Il modo più semplice per capire il funzionamento di quello che viene chiamato l'”Ecosistema” del programmatic advertising è ripercorrerne la storia. Lo farò riprendendo un video esplicativo creato dall’Internet Advertising Bureau (IAB) e seguendo passo per passo la sua evoluzione.
È importante sottolineare che lo IAB ha ogni incentivo per presentare il programmatic advertising come un dono dal cielo, la realizzazione della tecnoutopia: l’organizzazione di professionisti dell’advertising rappresenta un settore che negli ultimi anni è cresciuto sempre a doppia cifra creando – o meglio trasferendo – molta ricchezza, e che secondo le stime continuerà questo trend, almeno per i prossimi anni, nonostante i sempre più energici tentativi di regolamentazione. Invece questa modalità di advertising si porta dietro problemi anche gravi, che approfondirò in futuro:
- Noti problemi di Privacy – la punta dell’iceberg;
- Sorprendenti percentuali di cybercrime e frode;
- Opacità dei modelli di business – per quanto si parli di trasparenza, sta diventando sempre più normale per gli utenti non capire come le aziende Web guadagnano;
- Migrazione dei soldi del capitale di ventura che finanziano aziende tecnologiche nate per risolvere problemi causati da altra tecnologia: ad esempio, finanziamento di aziende contro le frodi, rese possibili dal modo stesso in cui funziona il sistema.
- AdTech tax: la sempre più lunga lista di commissioni da pagare alle aziende tecnologiche coinvolte nel processo per risolvere i problemi creati dalla tecnologia del programmatic.
- Il fatto eclatante che nemmeno la premessa fondamentale del programmatic, cioè che il targeting (e ora il microtargeting) funzioni meglio degli annunci contestuali, sia mai stata veramente dimostrata.

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Sarebbe ingenuo puntare il dito verso un solo colpevole per tutti questi grandi problemi, che occupano tanto tempo di privati cittadini e legislatori: essendo però l’advertising il modello di business di Internet, ed essendo Internet ormai una trasposizione – per quanto distorta – della vita della maggioranza della popolazione mondiale, è bene provare a capirci qualcosa.
Come funziona il programmatic advertising

L’immagine sopra rappresenta il punto di arrivo dell’evoluzione del programmatic advertising, o meglio, il “digital display advertising”, ovvero tutto l’apparato di banner, immagini, video in autoplay, eccetera, che si caricano in tempo reale quando accediamo alle pagine di molti siti di contenuti e, più di recente, app. Come anticipato, ne ripercorreremo la storia.
1.La corsa all’oro aumenta l’offerta di spazi pubblicitari disponibili

La pubblicità digitale inizia come semplice trasposizione sul web del sistema della pubblicità tradizionale, con accordi diretti tra publisher e advertiser. I publisher sono tutte le entità (siti di informazione, blog, app, programmi video, social media) la cui attività principale è la produzione e pubblicazione di contenuti. Rappresentano il lato dell’offerta (“supply”, in molti acronimi). Gli advertiser sono i brand o le agenzie che vogliono acquistare spazi pubblicitari: rappresentano il lato della domanda (“demand”).
Le ridotte barriere all’ingresso del Web, sempre rimasto pubblico e gratuito, incentivano la creazione di innumerevoli siti, alcuni nati senza uno scopo commerciale, altri attirati dalla possibilità di vendere spazi pubblicitari (inventory) agli advertiser. Questa corsa all’oro porta a un eccesso di offerta di spazi pubblicitari, una parte dei quali rimangono invenduti.
2.Impression “all’ingrosso”: la rivoluzione degli Ad Network

Alcuni inventivi imprenditori vedono un’opportunità nella massa di impression invendute (impression: il numero di volte in cui un annuncio viene potenzialmente visualizzato, proporzionale al traffico di una pagina), e si propongono come intermediari, o broker. Gli intermediari prendono il nome di Ad Network, i quali raccolgono da una parte i publisher che hanno impression da collocare, e dall’altra gli advertiser che hanno budget residuo, stabilendo così un mercato delle impression che vengono vendute in blocco e a prezzi molto bassi.
Gli Ad Network esistono tuttora, anche se il loro ruolo appare molto ridimensionato. Il metodo introdotto dagli Ad Network ha rappresentato un cambiamento rivoluzionario nel settore, perché introduce per gli advertiser il concetto di pubblicizzarsi non su una pubblicazione specifica – pubblicizzo le valigie sul sito di viaggi – ma davanti a un’audience specifica – pubblicizzo le valigie alle persone che amano i viaggi.
Il settore, essendo molto deregolamentato, ha permesso la creazione e partecipazione simultanea di molti Ad Network, ognuno con la propria proposta per advertiser e publisher. Questo a sua volta ha creato una moltiplicazione di audience, spesso sovrapposte tra loro: poteva dunque capitare che l’advertiser acquistasse la stessa audience più volte da Ad Network diversi, dato che nulla vietava la partecipazione a più network da parte dei publisher.
3.Ad Exchange e Data Management Platform (DMP)

Le inefficienze del sistema creato dagli Ad Network hanno portato alla necessità di introdurre gli Ad Exchange, piazze borsistiche dove i publisher possono vendere direttamente le loro audience, evitando così (almeno in teoria) il rischio di doppio acquisto da parte degli advertiser. La moneta di scambio è ora infatti il singolo individuo, le cui caratteristiche e preferenze, comunicate o inferite in vari modi, vengono registrate in database che diventano sempre più grandi. La costruzione di database da miliardi di dati porta a sua volta alla necessità di raffinare le tecniche di analisi e suddivisione degli utenti in segmenti sempre più granulari e di pronta disponibilità per l’acquisto da parte degli advertiser.
Le Data Management Platform (DMP, ovvero l’incubo più nero dei legislatori per la privacy) fanno proprio questo, e anche di più: una loro funzione importante è quella di “arricchire” o “stratificare” i dati, ovvero ricucire i frammenti di informazioni raccolte qua e là relative ai singoli utenti e tramite i famosi o meglio famigerati cookie di terze parti (sui quali farò un post separato) per creare, almeno nelle intenzioni, il quadro più completo possibile per ogni individuo, dalle sue caratteristiche demografiche alle sue preferenze d’acquisto.
4.Il Real Time Bidding (RTB)
Ormai il sistema è passato dal modello tradizionale, in cui la campagna pubblicitaria viene concordata in precedenza tra l’advertiser e il publisher, a un modello incentrato sulle preferenze del singolo individuo che può essere “beccato” mentre pascola su Repubblica come su 9gag.com.
Diventa quindi possibile immaginarsi e implementare un ulteriore raffinamento del metodo di collocamento degli annunci ovvero l’asta in tempo reale. Non tutta la pubblicità online viene gestita con questo metodo: per riconoscere quella che è stata selezionata con un meccanismo di asta basta però fare attenzione al tempo di caricamento degli annunci pubblicitari, e notare se questi cambiano all’interno degli stessi spazi.

Di seguito gli otto step dell’asta in tempo reale, che avvengono tramite algoritmi in maniera automatizzata, secondo parametri fissati in precedenza da advertiser e publisher, come ad esempio prezzo massimo che l’advertiser è disposto a spendere, e prezzo minimo che il publisher è disposto ad accettare. Altri parametri riguardano siti su cui gli advertiser non vogliono comparire, il numero massimo di volte in cui un utente dovrebbe visualizzare lo stesso annuncio, e così via. Tornando ai passaggi dell’asta:
- L’utente naviga sul sito di un publisher che ha spazi pubblicitari vuoti sulla sua pagina, generando una richiesta di advertisement per l’Ad Exchange;
- L’Ad Exchange genera una richiesta per la Demand Side Platform (vedi paragrafo successivo), la piattaforma dove gli advertiser gestiscono la loro pubblicità, inviando contestualmente le informazioni sull’utente tramite cookie («L’utente è un uomo di 55 anni»);
- La Demand Side Platform invia le informazioni sull’utente alla Data Management Platform, che eventualmente può “arricchirle” con altri dati presi da altri publisher («L’utente è un uomo di 55 anni e ha visitato da poco tuttopesca.it»);
- La Demand Side Platform risponde con una proposta di un advertiser che vende abbigliamento sportivo e un prezzo per il publisher («Ho qui una pubblicità di stivali di gomma; pago 0.1€ per impression»);
- Si svolge l’asta in cui competono proposte di advertiser diversi;
- L’advertiser di abbigliamento sportivo vince l’asta e paga per l’impression;
- La pubblicità degli stivali viene mostrata all’utente;
- L’utente clicca, o non clicca sulla pubblicità; compra o non compra gli stivali.
5.La trama s’infittisce: Trading Desk (TD); Demand Side Platform (DSP); Supply Side Platform (SSP)

Le cose iniziano a farsi davvero complicate per gli advertiser, che dopotutto volevano soltanto venderci i loro prodotti e servizi, anche senza scomodare intelligenza artificiale, aste in tempo reale, big data e modelli inferenziali. Per questo motivo entra in gioco il Trading Desk che svolge per conto dell’advertiser le attività di gestione delle campagne. Compaiono anche le Demand Side Platform, piattaforme tecnologiche che gestiscono diversi aspetti, dagli “asset” creativi (le immagini, banner, video, copywriting creati dall’azienda), alla selezione dei segmenti di utenti d’interesse per l’azienda, alle aste in tempo reale – e, ho il sospetto, molto altro. Le Supply Side Platform svolgono una funzione simile per il lato dell’offerta, i publisher, gestendo l’inventario pubblicitario, le aste in tempo reale e altre diavolerie per loro conto.
6.Nuove opportunità di advertising: le app. Nascono nuove aziende di AdTech

Con la tendenza sempre maggiore degli utenti alla fruizione di internet tramite smartphone si aprono nuove possibilità di “monetizzazione” attraverso le app. I telefoni sono ancora un po’ il Wild West del Web, e più che le opportunità legittime di advertising (non molte) si aggiungono innumerevoli possibilità di frode, ovvero i soldi delle aziende vanno a remunerare non publisher legittimi ma operazioni fraudolente di cui parlerò più nel dettaglio in futuro.
Per questo motivo iniziano a comparire, e a rivestire un ruolo sempre più importante, nuove aziende di AdTech dedicate alla salvaguardia degli investimenti ma anche dell’immagine dei brand (che si vedono comparire le loro pubblicità accanto a siti con contenuti discutibili quando non su app costruite ad hoc per defraudarli).
Concludo così questa carrellata sull’evoluzione del programmatic, su una nota decisamente meno festante dello IAB che alla fine del video esplicativo dichiara: «Con ogni nuovo progresso il digitale continua a innovare e migliorare rimanendo il modo più efficace per raggiungere e sorprendere la tua audience».
Una scatola nera
La storia del programmatic è una storia di avidità, di commerciali convincenti armati di un utopismo tecnologico che si potrebbe chiamare ingenuità se non fosse così carico di conseguenze; una storia di cybercrime; una storia di disperati e spesso mal diretti tentativi di salvare il settore in crisi del giornalismo. È una storia piena di altre storie, nel senso di bugie: quelle raccontate dalle agenzie di AdTech ai propri clienti, le aziende, cui viene venduto il sacro Graal dell’advertising, ovvero mettere il messaggio pubblicitario davanti al cliente giusto, proprio nel momento in cui vuole fare l’acquisto, senza sprecare così nemmeno un centesimo del budget; quelle raccontate dai publisher alle agenzie, che gonfiano le statistiche del traffico (quando non lo simulano tout court) per ovviare alle perdite finanziarie imposte dalla AdTech Tax, che riduce di una percentuale dal 30 al 70% le entrate rispetto ai soldi spesi dai brand; quelle che si raccontano i marketing manager per non vedere le frodi e mantenere la convinzione di essere dei veri draghi; quelle che i publisher e le startup raccontano a noi, quando ci parlano della gran bellezza che è vedere annunci personalizzati, e quanto ci perderemmo se vedessimo annunci generici (cosa che fortunatamente sta cominciando ad essere sbugiardata); e molte altre ancora.
Purtroppo il programmatic è una scatola nera che ha sostituito alla tipica incertezza del marketing (qualcuno diceva «So che sto sprecando la metà dei soldi che investo, purtroppo non so quale metà») la promessa di onniscienza dell’utopia tecnologica, finendo per creare un livello di incertezza di molti ordini di grandezza maggiore e rivoluzionare interi settori nel processo.
Quindi è un’utopia avere un internet gratuito, supportato dall’advertising? Senz’altro il sistema com’è non funziona per quelli che paradossalmente dovrebbero trarne i maggiori vantaggi, gli utenti e gli editori: gli uni alla meglio indifferenti, alla peggio esasperati o in preda alla paranoia per la privacy; gli altri che vedono i loro profitti scendere e chiudono, riducono i compensi ai loro giornalisti, quando non abbracciano modelli di business come la vendita dei dati dei loro utenti, che nulla avrebbero a che fare con il loro scopo originale.
L’advertising è l’unico modo per rendere il Web sostenibile economicamente?
Ci sono molte proposte per cambiare il default e passare a un altro modello per Internet. Jaron Lanier e la sua compagine, ad esempio, vorrebbero che gli utenti venissero compensati per i loro dati. Linus Olsson ha fondato flattr nella convinzione che i creatori di contenuti sul Web possano essere pagati direttamente dagli utenti. L’immancabile blockchain entra nella discussione con il suo cavallo di battaglia, tagliare gli intermediari e mettere nuovamente in comunicazione advertiser e publisher.
Anche alcuni publisher e advertiser visionari hanno preso in mano la situazione e rifiutato il sistema del programmatic con le sue conseguenze di sorveglianza e dispersione degli investimenti, vedendo risultati positivi: un importante publisher olandese ha eliminato i cookie vedendo un aumento delle sottoscrizioni e dei profitti; il New York Times ha eliminato il targeting comportamentale e tagliato gli Ad Exchange in Europa, vedendo anch’esso un aumento dei profitti; Uber ha tagliato 100 milioni di $ dal suo budget di 150 milioni, non vedendo alcun cambiamento nei download dell’app; Procter & Gamble ha tagliato 140 milioni di $, senza conseguenze.
È un momento di grande cambiamento, e un segnale forte è stato dato da Google, che ha annunciato che nel 2022 dismetterà i cookie di terze parti su Chrome (quelli che vanno ad alimentare gli enormi database di cui ho parlato sopra). Safari e Firefox l’avevano già fatto, così come Brave, ma Chrome ha due terzi del mercato dei browser e per questo la sua dichiarazione ha suscitato reazioni forti, e senz’altro influenzerà il futuro di Internet a seconda di come tutti gli attori reagiranno, compresi noi utenti.