Iniziando a scrivere un post su quella che alcuni chiamano la “Post-cookie apocalypse”, cioè le conseguenze del fatto che Google presto (nel 2022) abbandonerà i cookie di terze parti, mi sono resa conto che è impossibile parlarne senza sapere almeno a grandi linee come funziona l’online advertising. Anche se i meccanismi alla base della pubblicità digitale potrebbero essere di per loro abbastanza comprensibili, una densa nebbia gergale li avvolge e confonde persino i professionisti del settore. Lo sottolinea in modo inequivocabile James Ball nel suo libro The System (Bloomsbury, giugno 2020), vincitore del premio Pulitzer, in cui il capitolo dedicato all’online advertising inizia così: «Nel giornalismo – se non nella vita – è una buona regola preoccuparsi molto quando qualcuno ti dice che qualcosa è così complicato che non te ne dovresti preoccupare. […] Non c’è nulla come pochi secondi di zuppa di acronimi o gergo tecnico per far sconnettere mentalmente la maggior parte di noi, e il linguaggio dell’industria della pubblicità online […] sembra costruito apposta per farci sconnettere mentalmente.»

In effetti, tra SSP, DSP, advertising server, advertising network, advertising exchange, advertising agency trading desk, data management platform, orientarsi richiede determinazione.

Partiamo dall’inizio per capire come si è evoluto l’online advertising lungo la sua storia tutto sommato ancora breve: 26 anni.

1994: primo banner

  • Contrattazione: diretta
  • Contenuto: statico
  • Personalizzazione: nessuna
  • Tracking: no

Il più famoso dei primi banner pubblicitari cliccabili viene posizionato su Hotwired, la versione online di Wired, ed è di AT&T, la più grande azienda di telecomunicazioni al mondo. Il processo di vendita è identico a quello impiegato dai giornali cartacei per vendere spazi pubblicitari sulle loro pagine: secondo diverse fonti (Hubspot, Adpushup, The Atlantic) la contrattazione avviene direttamente tra il magazine e il cliente e il banner viene venduto alla cifra di 30.000 $ per un periodo di tre mesi.

1995: dal modello tradizionale al Cost per Mille (+ cookie e ricerca parole chiave)

  • Contrattazione: diretta
  • Contenuto: statico
  • Personalizzazione: nessuna
  • Tracking: calcolo delle visualizzazioni degli annunci; cookie.

Il primo acronimo è CPM, “cost per mille”, il modello di costo per gli annunci pubblicitari che prevede il pagamento di una somma per ogni mille visualizzazioni invece che un forfeit per un periodo determinato: ad esempio, un CPM di 10$ comporta un pagamento di 10.000$ a fronte di 10 milioni di visualizzazioni (10.000.000/1000=10.000). Qui occorre fare una breve digressione. Da metà anni ’90 fino alla vittoria di Google c’è grande concorrenza tra i motori di ricerca per risolvere il problema più pressante all’epoca, ovvero organizzare i contenuti di Internet per permettere agli utenti di trovarli e utilizzarli. Netscape, Infoseek, Excite, Yahoo, Lycos, Altavista, in Italia Virgilio, si contendono il primato per diventare IL portale di accesso a Internet. I motori di ricerca iniziano a ricevere l’attenzione degli investitori e, una volta finanziati, devono trovare un modo per monetizzare i loro servizi. Ma quale? La scelta del modello di business ricade da subito sulla pubblicità e da allora in poi – fino all’arrivo di Google – i motori di ricerca iniziano a modificare il modo in cui operano: invece di mantenere un servizio essenzialmente di smistamento degli utenti su altri siti, infarciscono le home page di notizie e oroscopi e offrono servizi tra cui email e chatroom. Insomma, cercano di catturare l’attenzione degli utenti e trattenerli allo scopo di rendere le loro pagine allettanti per posizionarvi annunci pubblicitari. Questo antico e illuminante articolo di Cnn (1995) spiega tutto bene e fa sorridere la prescienza dell’autore, che intitola uno dei paragrafi: It’s about to get even more confusing.

A lanciare il modello CPM sono proprio due motori di ricerca, Netscape e Infoseek.

Nello stesso anno (1995) succedono altre due cose importanti: Netscape implementa i cookie nel suo browser per tracciare il comportamento degli utenti online, e Yahoo (anche questo concepito inizialmente solo come motore di ricerca) testa i primi annunci basati sulle parole chiave.

1996: Doubleclick inizia a tenere traccia del ritorno sull’investimento pubblicitario (ROI, Return On Investment)

  • Contrattazione: diretta o tramite le prime agenzie
  • Contenuto: statico; possibilità di modificare una campagna “in corsa”
  • Personalizzazione: le agenzie iniziano a segmentare i siti secondo le caratteristiche demografiche degli utenti; mettono un limite al numero di volte in cui un utente visualizza lo stesso banner per evitare il cosiddetto “affaticamento da banner”
  • Tracking: calcolo delle visualizzazioni degli annunci; tracking del ROI; tracking dei click.

Il 1996 è un anno fondamentale in cui iniziano a consolidarsi dinamiche che sono tuttora alla base dell’online advertising. È già chiara l’opportunità offerta da Internet ma non è ancora semplice per i siti trovare le aziende che vogliono pubblicizzarsi, e viceversa: nascono quindi le prime agenzie di intermediazione per facilitare il contatto tra domanda e offerta di pubblicità. Tra le prime che offrono l’accesso a un ampio network di aziende c’è Webconnect, seguita e poi rimpiazzata da Doubleclick (quest’ultima è importante perché verrà acquisita da Google pochi anni dopo e sarà decisiva per il suo successo commerciale). Sulla scia di Webconnect, Doubleclick adotta da subito l’approccio quantitativo e analitico oggi caratteristico del settore: traccia le impressioni (cioè quante volte un annuncio potenzialmente entra nel campo visivo dell’utente) ma anche i click; inizia a valutare e catalogare i siti a seconda delle caratteristiche demografiche dei loro utenti; offre alle aziende che acquistano spazi pubblicitari un portale in cui monitorare la performance delle campagne e la possibilità di cambiare l’allocazione degli annunci in modo dinamico, ad esempio ritirare un banner da un sito i cui utenti non mostrano interesse per concentrare gli investimenti su un altro sito più remunerativo.

1997-2002: arrivano i pop-up; scoppia la bolla delle dotcom; inizia il modello Pay per Click e arrivano le aste; nasce Google e sbaraglia la concorrenza

  • Contrattazione: diretta o tramite agenzie
  • Contenuto: statico; possibilità di modificare una campagna “in corsa”; annunci testuali tra i risultati dei motori di ricerca, basati sulle parole chiave
  • Personalizzazione: sostanzialmente invariata
  • Tracking: sostanzialmente invariato

Il pop-up viene inventato a metà anni ’90 da Ethan Zuckerman, uno sviluppatore di Tripod, e implementato da Geocities all’inizio del 1997 (Zuckerman chiede ufficialmente scusa qui per quella che lui stesso considera un’invenzione funesta). Molti siti lo utilizzano da subito come rimedio al calo dei click sui banner pubblicitari (il pop-up è più difficile da ignorare), ma è dopo lo scoppio della bolla delle dotcom nel 2000 che viene adottato in massa, in un tentativo di recuperare fatturato quando il prezzo dei posizionamenti pubblicitari si contrae drasticamente assieme al crollo del mercato azionario delle aziende tecnologiche. [Riassunto telegrafico del fallimento del 2000: il clima che circonda le aziende legate a internet è sempre più esilarante e gli investitori sgomitano per prendere parte alla crescita rapidissima del settore, senza prestare abbastanza attenzione alla solidità dei modelli di business delle aziende che finanziano; le aziende stesse si concentrano sull’espansione della loro base utenti per alimentare il sogno di profitti futuri, e per farlo spendono somme enormi in marketing; costi alti+fatturato misero = boom].

Tornando all’advertising, Google viene fondata nel 1998 e a partire dal 1999 inizia a offrire spazi pubblicitari testuali – non ancora visuali – basati sul modello CPM (cost per mille, vedi sopra), nonostante alcune resistenze iniziali dei fondatori a rendere Google un’azienda commerciale. Nel frattempo goto.com, un altro motore di ricerca, sta già utilizzando una prima versione del modello Pay per Click che si rivela di successo, introducendo contemporaneamente una nuova modalità di asta in cui l’azienda che ha stabilito l’offerta più alta per determinate parole chiave si assicura il posizionamento migliore nella lista dei risultati, pagando poi goto.com in base ai click ricevuti dall’annuncio.

Nel 2001 il fatturato di Google è ancora solo un terzo rispetto a quello di goto.com. Nel 2002 Google, con mossa decisiva, passa al modello Pay per Click che modifica in un modo che ne determinerà la vittoria definitiva nella competizione tra motori di ricerca: invece che semplicemente assicurare il posizionamento migliore all’azienda che paga di più per determinate parole chiave, compromettendo così la rilevanza dei risultati di ricerca, Google sviluppa quello che ora si chiama Quality Score, che conta i click ricevuti da tutti i link risultanti da una determinata ricerca e permette anche a chi ha pagato di meno – o magari non ha pagato affatto – di salire nel posizionamento.

2004-2014: Google esplode; entriamo nell’era dei social media; inizia il famigerato retargeting

  • Contrattazione: sempre meno diretta e sempre più tramite agenzie, soprattutto Google (Doubleclick) e Facebook
  • Contenuto: statico, dinamico, testuale, video
  • Personalizzazione: alta, tramite l’utilizzo del retargeting e delle segmentazioni dei social media
  • Tracking: costante e selvaggio

Google entra in borsa nel 2004 e nei successivi dieci anni aumenta il suo fatturato da tre a 65 miliardi di dollari all’anno, anche grazie a importanti acquisizioni: nel 2006 Youtube, che in soli due anni (2004-2006) passa da zero a 20 milioni di visitatori annui, diventa parte di Google; nel 2007 è il turno di Doubleclick, acquisto che determina l’ingresso del motore di ricerca nel business del display advertising (banner & co.) e ne amplia esponenzialmente l’area di azione. Infatti se prima Google offre annunci pubblicitari solo sul suo sito, con l’acquisizione di Doubleclick si assicura l’accesso a contatti preziosi che fino ad allora aveva tentato di approcciare con scarso successo: editori online (web publisher), aziende e agenzie di pubblicità online.

Nello stesso periodo nascono tutti i social media che monopolizzano attualmente il mercato: Facebook (2004); Twitter (2006); Instagram (2010); e la già menzionata Youtube. Facebook inizia a mostrare pubblicità ai suoi utenti nel 2006, Youtube fa un primo tentativo nel 2006 e nel 2008 consolida la sua posizione, Twitter introduce i tweet promozionali nel 2010 e diventa pioniera nell’influencer marketing, Instagram inizia a monetizzare con la pubblicità nel 2013.

Nel 2007, sempre nel tentativo di aumentare gli esigui ritorni sull’investimento in banner pubblicitari, viene introdotta una pratica che inizierà a dare agli utenti la netta sensazione di essere pedinati durante la loro navigazione: il retargeting. Google introduce il retargeting tra i suoi servizi nel 2010, ribattezzandolo remarketing. E con questo inizia la personalizzazione degli annunci pubblicitari non solo secondo la segmentazione dei publisher (sul New York Times trovo la pubblicità del Rolex, chiunque io sia, perché i lettori del New York Times sono più ricchi e attirano brand più costosi) ma secondo lo storico di navigazione del singolo utente (sul New York Times trovo la pubblicità del Rolex perché sono appena stata sul sito della Rolex; la mia collega invece ci trova la pubblicità del cibo per gatti perché ha visitato https://thecatsite.com).

Con il retargeting inizia anche la “retorica della rilevanza”, secondo la quale chi vende pubblicità giustifica il tracking sostenendo che è tutto a beneficio degli utenti.

2014: Il programmatic advertising, il mostro dell’Adtech e il garbuglio inestricabile in cui ci troviamo ora

Internet Advertising Bureau: Guide to digital display advertising

L’immagine sopra rappresenta chiaramente la complessità del sistema dell’online advertising ai nostri giorni.

I punti di partenza e di arrivo sono sempre gli stessi: da una parte le aziende che vogliono pubblicizzarsi (advertiser) e dall’altra i siti che vogliono monetizzare il loro traffico (publisher). Nel mezzo ci sono gli ad network, gli ad exchange e una miriade di aziende di advertising technology, diminuite in Adtech, che sostanzialmente cercano di differenziarsi offrendo alle agenzie di advertising strumenti sempre più sofisticati per raggiungere il target migliore di utenti.

Parlerò del programmatic advertising nel prossimo post, perché i suoi meccanismi sono abbastanza intricati da meritarsi una trattazione separata. Chiudo invece con un’altra citazione dal libro di James Ball, che ha intervistato Brian O’Kelley, ex-CEO e cofondatore di AppNexus (azienda madre del programmatic), il quale ammette con un candore un po’ destabilizzante: «La realtà è che sul mio personal computer uso un ad blocker, e la cosa non mi mette in imbarazzo».

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